lunedì 30 gennaio 2012

RENATO TURCI

Renato Turci – poeta e pittore – era nato a Longwy, in Francia, il 10 ottobre 1925 da emigrati cesenati e a Cesena è scomparso il 7 gennaio 2007. Ha abitato per diversi anni a Arles, in Provenza, e la sua formazione culturale era francese, mentre le sue prime aspirazioni artistiche erano rivolte verso le arti figurative. Risale al 1941 il suo trasferimento a Cesena dove vivrà per tutta la vita. Nel 1952, una sua prima raccolta inedita di poesie in lingua italiana, dedicate alla figlia appena nata, e alla moglie Anna, a Roma riceve il primo premio “Incontri della Gioventù” da una giuria composta da Giuseppe Ungaretti, Carlo Betocchi, Attilio Bertolucci, Adriano Grande ed Enrico Falqui (il libretto uscirà l’anno dopo con aggiunte e con il titolo "Lilia e altre poesie", nelle edizioni Lega di Faenza). Nel frattempo e sino al 1981 è nella celebre Biblioteca Malatestiana della quale è stato vice direttore. Nel 1966, con la raccolta inedita "Qualcosa di più" vince la prima edizione del “Premio Nazionale di poesia Roberto Gatti”, la cui giuria contava Marino Moretti, Carlo Betocchi, Giuseppe Raimondi, Geno Pampaloni e Claudio Marabini. Nel 1970, insieme agli amici cesenati Cino Pedrelli e Bruno Pompili, ha fondato la rivista di varia cultura «Il Lettore di Provincia», che ha diretto fino alla sua scomparsa, edita da Longo di Ravenna. Nel 1973, per i tipi della Sindia editrice di Bari, ha pubblicato "Cantone malo", una raccolta di brevi poemetti in prosa o schegge di romanzo che hanno per soggetto un antico quartiere di Cesena e i suoi abitanti. Nel 1974, per la Forum editrice di Forlì esce, riveduta e ampliata, la raccolta "Qualcosa di più", con introduzione di Giovanni Pacchiano. Ha tradotto opere di Jean Paulhan per le editrici Longo di Ravenna e Ripostes di Salerno-Roma. Nel 1996, presso le editrici cesenate, Il Vicolo e Il ponte Vecchio, associate per l’occasione, ha pubblicato "Un quadrilatero letterario: Serra, Vailati, Paulhan, Ungaretti", opera che si occupa delle postille lasciate da Renato Serra nel volume Scritti di Giovanni Vailati (1913). Per l’editrice Le Monnier ha curato nel 2001 le lettere di Serra alla giovane cesenate amata nel 1913: "Lettere a Fides “saetta che ferisce e vola”. Ha tradotto in francese i testi serriani "Ringraziamento a una ballata di Paul Fort" (1914) e "Esame di coscienza di un letterato" (1915) e in italiano i saggi paulhaniani "Le Clair e l’obscur" e le "Don des langues". Inoltre, sempre come poeta, ha pubblicato "Le coupable" (Ed. Quaderni di Nuovo Ruolo, Forlì 1983), "Prima ed ora" (Il Lettore di Provincia, Longo, Ravenna 1983), "I ritorni" (Ed. Ripostes, Salerno-Roma 1993) e in una edizione riveduta e ampliata con testi inediti, a cura delle edizioni Il Vicolo di Cesena, nel 2006 è uscita la sua upiù celebre opera "Cantone Malo". Nel 1991, nelle edizioni Ripostes di Salerno, aveva pubblicato il saggio "Franco Ferrara. Per conoscere una poesia e un uomo" (Ed. Ripostes, 1991). Numerosi critici hanno analizzato la sua poetica, fra i quali Luciano Cherchi, Ernestina Pellegrini, Giovanni Pacchiano, Franco Verdi, Claudio Toscani e Pietro Civitareale. È stato collaboratore di varie riviste italiane e francesi, fra cui: «Potere Sociale», Cesena; «La Scrittura», diretta da Antonio Stango e Idolina Landolfi, Roma; «L’Ortica», Forlì; «Impegno 70», Mazara del Vallo; «Cartapesta», Imola; e «Studi Romagnoli» di cui è stato, per vario tempo, animatore e responsabile dell’omonima Società. Come pittore la sua prima grande mostra personale fu allestita, a cura di Davide Argnani, al Centro Culturale «Nuovo Ruolo» di Forlì nel 1980 (dal 22 novembre al 7 dicembre), ottenendo grande successo di pubblico e di critica e ancora due anni dopo presso la Galleria «Abbecedario», sempre a Forlì. Ho fatto appena in tempo a conoscerlo pochi mesi prima della scomparsa presso la Libreria Mondadori della sua città, dove tenne una bella serata di poesìa insieme al poeta ravennate Eugenio Vitali.



C’è anche l’opposto
del nostro restare in caos di strade
infossate entro muri altissimi,
c’è l’esaltarsi sull’erba incorrotta,
sedere e respirare
davanti agli orizzonti spalancati,
e annotare tranquillamente
che le case nate in libertà
hanno porte e finestre rivolte a sud.
Ma c’è la realtà dura:
gli uomini emigrano
da questi luoghi di solitudine
e di scarsi averi
e abitano dove anche si sa
che la parola è chiasso,
distratte cerimonie
l’amore, la vita, la morte e l’odio.

****
Aperti e visti
questi fogli rivelano
una minuta grafia
e sottili nervature.
Chiusi
sono una tranquilla
sovrapposizione
di carte
ferme una sull’altra.
Non letti
aperti o chiusi
tutto rimane
in un calmo mistero.

(da Fogli con varianti e nervature, XV)

venerdì 27 gennaio 2012

MAURA DEL SERRA

Maura Del Serra, oltre che poetessa, è drammaturga, traduttrice e critica letteraria. Ha all'attivo varie raccolte di cui l'ultima, "L'OPERA DEL VENTO. POESIE dal 1965 al 2005", è stata pubblicata dall'editore Marsilio. Questa poesia è stata tratta dal n. 223 del gennaio scorso della rivista di cui stiamo celebrando il ventennio. Maura Del Serra vive a Pistoja e insegna Letterature Comparate all'Università di Firenze.


Lo so: questo è il tempo dei cuori ammainati,
delle anime a mezz'asta col teschio pirata
della noja al vento triste
è finita la lunga battaglia dei gabbiani,
e la luna torna alla casa di zucchero dei violini
dimenticando che fu dea, nel tempo
selvaggio e puro della terra e del sangue fiammeggiante.
Lo so, figlia del sogno, ma non posso
regalarti sorgenti di pace
dove specchiare il vero serrato dai tuoi occhi.
Altro tempo fu quello dove i giovani mondi
ti donavano i frutti del dolore
in sacrificio, o dolce...
Sei sola come me. Vengono. Taci.

PAT BORAN

La luce è la causa dell'ombra,
i bambini la causa della morte.
E quando si ascolta musica
il silenzio non è mai troppo lontano.
Gli attori soffrono in pubblico
perche non riescono mai
ad essere sè stessi.
I fiumi invidiano le pietre,
e le pietre, i fiumi.
E mentre l'uccellino sulla schiena
dell'ippopotamo sembra abbastanza
contento di aspettare,
la maschera del cinema deve
chiedersi da che cosa si stanno
nascondendo tutti quegli amanti
del bujo.

ENNIO CAVALLI

.
ENNIO  CAVALLI,  forlivese,  classe  1948,  vive  da  molti  anni  a  Roma,  dove  per  lungo  tempo  è  stato  direttore  di  RadioRai2.  Questa  poesia  è  tratta  dalla  raccolta  "CARTA  INTESTATA",  del  1982,  che  quell'anno  andò  finalista  al  Premio  Viareggio.




Sono  padre  del  bambino
che  a  dieci  anni  su  questi  muscoli
trottava  incontro 
ad una abitudina già adulta,
e  con  la  stessa  febbre
moltiplicava  feste  ed  avvilimenti
crucci  perentori,
indelebili  obiezioni...

(un  uomo  tra  germoglio  e  liquido)

Sono  padre  del  bambino
che  odiava  l'aritmetica
ed  ora  suddivide  estri
per  variabili  future...
gli  ho  insegnato  a  non  piangere
che  la  solitudine  teme
chi  tiene  in  casa  un  giradischi
e  per  amico  un  gatto  o  un'idea.

I  miei  occhi  coi  suoi 
hanno  divorato  primavere
e  magnolie  gonfie  sui  rami...
docile  avversario  un  muretto
trasformava un  pallone
in  prodezze  al  volo
(a  quale  finestra  una  bambina?)

Fine  stagione  nel  cappottino  più  corto,
oppure  spavaldi  in  capitali  europee,                                                                      le  sue  scarpe  mi  starebbero  strette
nelle  mie  immagina
ancora  una  mèta  importante
(appuntamento  a  Milano)

Tentava  la  O  di  Giotto,
inconfutabile  circoscrizione
del  talento...
tra  i  suoi  trofei:
uova  di  lucertola,
otto  a  scuola,
Bianchi  per  quella  tappa 
in  falsopiano.

 
Dovrei  avere  
il  triplo  di saggezza,
e  invece  mi  appello  ancora
a  sue  nozioni  elementari,
il  cuore  sempre
a  due  spanne  dalla testa...
dov'è  a  quest'ora?

Ucciso  dal  chiodo  della  Cresima,
soffocato  da  sangue  adolescente,
da  padre  tartaro
squartato  col  coltello,
mi  lasciò  le  sue  ossa,
ed  il  suo  profilo.

Dorme...
in  un  cimiterino  di  paese...
dopo  la  polvere,
dopo  le  magnolie.

Questi  trent'anni,
sgocciolati  e  in  bilico,
sono  l'esile  zavorra
messa  in  salvo.
Resterà  in  me  
per  capire,  per  annusare...


Sarà  una  variabile  fissa
nel  quaderno  delle  imprecisioni,
la  sorpresa  riletta  in  una  foto.

SUOR JUANA INES DE LA CRUZ

Suor Juana Inès de la Cruz (1619-1695), fu poetessa, storica, scienziata e teologa.
 

Verde  raggiro  della  vita  umana
folle  Speranza,  delirio  dorato,
sogno  disordinato  degli  svegli,
e,  come  i  sogni,  di  tesori  vana;
anima  del  mondo,  vecchiaia  ridente,
decrepito  rigoglio  immaginato,
l'oggi che  hanno  aspettato  i  fortunati
e  il  domani  che  attende  chi  ha  sfortuna;
cerchi  il  tuo  giorno  dietro  la  tua  ombra
chi  con  lenti  di  verde  colorate
tutto  vede  dipinto  a  suo  piacere;
io,  più  guardinga  nelle  mie  occasioni,
ho  entrambi  gli  occhi  in entrambe  le  mani,
e  solamente  ciò  che  tocco,  vedo.

martedì 24 gennaio 2012

LEONARDO SINISGALLI

arton9724-d5397Una delle voci più alte e singolari della poesia italiana del Novecento, Leonardo Sinisgalli, nacque a Montemurro, in provincia di Potenza, il 9 marzo del 1908. Scoperto da Ungaretti, fu definito "il poeta ingegnere" perchè nella vita era davvero un ingegnere. Sbarcato a Roma giovanissimo, ivi compì gli studi e successivamente entrò nel mondo del lavoro, servendo le bandiere della Pirelli, della Finmeccanica e dell'ENI. Negli anni 50 fondò e diresse per alcuni anni la rivista "CIVILTA' DELLE MACCHINE". La sua originalità consiste nel tentativo di accordare la scienza al sentimento, la geometrìa all'arte, la matematica alla poesìa. Un tecnocrate poeta, dunque. Sinisgalli recupera il concetto della poesìa che non significa soltanto esprimere buoni sentimenti in forma più o meno letteraria, ma significa sopratutto, oltre ad avere coscienza del significato delle parole usate, obbedire a precise regole matematiche codificate già dall'antichità e che solo apparentemente il verso libero degli ultimi cent'anni ha stravolto. La poesìa segue una sua logica musicale, che, volente o nolente, segue a sua volta una logica aritmetica. Non a caso chi è poeta molto spesso è anche musicista (non dimentichiamoci mai che poesìa viene da poièsis, che in greco classico è una delle forme più avanzate del verbo fare, in pratica "costruire, architettare"), e spesso anche matematico. Il matematico Renato Caccioppoli, napoletano, di cui parla a volte il suo illustre concittadino De Crescenzo, e morto suicida, aveva una schermatura mentale del tutto simile a quella del mitico poeta francese Mallarmè, morto nella seconda metà dell'Ottocento. Il "furor poeticus", quindi, non è dissimile al "furor mathematicus", perchè ambedue s'interrogano sul mistero delle cose. Sinisgalli, in particolare, strappato alla sua Lucania fin da giovanissimo, conferisce alla sua poesia uno sguardo retrospettivo, da "ricerca del tempo perduto" di proustiana memoria. Una poesia popolata di oggetti apparentemente insignificanti, ma tutti intensamente cari alla memoria: questo segna in quegli anni il passaggio ad un tipo di poesìa contaminata dal sociale e dal verismo. Questa strada verrà poi seguita da un altro grande poeta del Sud, Rocco Scotellaro, che ne amplierà le tematiche fino a sfociare in una poesia corale, epica e dai tratti socialisti. Tra i titoli più famosi di Sinisgalli, "Vidi le Muse", "Campi Elisi", "Nuovi Campi Elisi", "La vigna vecchia" e "Dimenticatoio". Scrisse anche varie opere in prosa fra cui, appunto, "Furor Mathematicus". Leonardo Sinisgalli è scomparso a Roma il 31 gennaio del 1981. Ecco una delle sue liriche più affascinanti, dal titolo "LUCANIA".


Al  pellegrino  che  s'affaccia  ai  suoi  valichi,
a  chi  scende  per  la  stretta  degli  Alburni
o  fa  il  cammino  delle  pecore  lungo  le  coste  della  Serra,
al  nibbio  che  rompe  il  filo  dell'orizzonte
con  un  rettile  negli  artigli,  all'emigrante,  al  soldato,
a  chi  torna  dai  santuari  o  dall'esilio,  a  chi  dorme
negli  ovili,  al  pastore,  al  mezzadro,  al  mercante
la  Lucania  apre  le  sue  lande,
le  sue  valli  dove  i  fiumi  scorrono  lenti
come  fiumi  di  polvere.

Lo  spirito  del  silenzio  sta  nei  luoghi
della  mia  dolorosa  provincia.  Da  Elea  a  Metaponto,
sofistico  e  d'oro,  problematico  e  sottile,
divora  l'olio  nelle  chiese,  mette  il  cappuccio
nelle  case,  fa  il  monaco  nelle  grotte,  cresce
con  l'erba  alle  soglie  dei  vecchi  paesi  franati.
Il  sole  sbieco  sui  lauri,  il  sole  buono
con le  grandi  corna,  l'odoroso  palato,
il  sole  avido  di  bambini,  eccolo  per  le  piazze!

Ha  il  passo  pigro  del  bue,  e  sull'erba
sulle  selci  lascia  le  grandi  chiazze
zeppe  di larve.
Terra  di  mamme  grasse,  di  padri  scuri
e  lustri  come  scheletri,  piena  di  galli
e  di  cani,  di  boschi  e  di  calcare,  terra
magra  dove  il  grano  cresce  a stento
(carosella,  granturco,  granofino)
ed  il  vino  non  è  squillante  (menta
dell'Agri,  basilico  del  Basento)
e  l'uliva  ha  il  gusto  dell'oblìo,
il  sapore  del  pianto.

In  un'aria  vulcanica,  fortemente  accensibile,
gli  alberi  respirano  con  un  palpito  inconsueto;
le  querce  ingrossano  i  ceppi  con  la  sostanza  del  cielo.
Cumuli  di  macerie  restano  intatte  per  secoli:
nessuno  rivolta  una  pietra  per  non  inorridire.
Sotto  ogni  pietra,  dico,  ha  l'inferno  il  suo  ombelico.
Solo un  ragazzo  può  sporgersi  agli  orli
dell'abisso  per  cogliere  il  nettare
tra  i  cespi  brulicanti  di  zanzare
e  di  tarantole.

Io  tornerò  vivo  sotto  le  tue  piogge  rosse.
Tornerò  senza  colpe  a  battere  il  tamburo,
a  legare  il  mulo  alla  porta,
a  raccogliere  lumache  negli  orti.
Udrò  fumare  le  stoppie,  le  sterpaje,
le  fosse,  udrò  il  merlo  cantare
sotto  i  letti,  udrò  la  gatta
cantare  sui  sepolcri?

JORGE GUILLEN

Jorge Guillèn è stato uno dei maggiori poeti spagnoli del Novecento (Valladolid 1893 - Malaga 1984). Il testo è tratto dalla sua OPERA POETICA, a cura di Oreste Macrì, e pubblicata a Firenze nel 1972 dalla Casa Editrice Sansoni.


Torna  una  vecchia  musica
a  risuonare.

L'ho  vissuta  tutta  commista
al  suo  ambiente  che  il  mio
più  benigno  passato  sorge
a  pezzi  dalle  sue  rovine.
-Tante  sono!-  e  risuscito
con  quel  mondo  che  fu.
Fragile  sotto  i  sospiri.

Tutto  continua  nell'ombra
fino  a  che  l'oblìo  torna.

ALDA MERINI

Fragile,  opulenta  donna,
matrice  del  Paradiso,
sei  un  granello  di  colpa
anche  agli  occhi  di  Dio,
malgrado  le  tue  sante  guerre
per  l'emancipazione.

Spaccarono  la  tua  bellezza
e  rimane  uno  scheletro  d'amore
che  però  ancora  grida  vendetta,
e  soltanto  tu  riesci
ancora  a  piangere,
poi  ti  volgi  e  vedi  ancora  i  tuoi  figli
poi  ti  volti  e  non  sai  ancora  dire
e  taci  meravigliata...

e  allora  diventi  grande  come  la  Terra!



merini_alda

PAT BORAN

L'ultimo della triade dei poeti irlandesi resi noti dal TRATTIFOLKFESTIVAL di Faenza nel 2008.


Il più semplice dei rimedi, a tarda notte,
è la lavanda dei piedi.

Quando la luce chiamata cielo è un'assenza,
quando il traffico è assopito,
quando il canto è una cosa fisica
e richiede una forza fisica,
ma sei talmente disfatto e di nuovo
contro il buio e le rose e i tulipani
coraggiosi di Merrion Square
sono da tempo richiusi,
sull'oscuro alito di cotone
che gli freme dentro.

Quando il mondo è una caverna,
una prigione sotterranea,
quando gli angeli si arrendono,
allora torna a questo minuscolo
e pacifico oceano, la lavanda dei piedi.

TOLMINO BALDASSARI


La  neve  che  ti  prendeva  tanto

                                            ancor  prima  di  cadere

davanti  alle  tue  finestre

o  sulle  rive  d'argento  del  tuo  fiume,

lenta,

            invisibile  marea

                                                di  memorie  e  voci,

è  passata  con  un  brivido  da  qui,

e  senza  passi  felpati

                                                     lasciando

strade,  campanili  e  uomini  d'aria

è  caduta  sui  tuoi  occhi,

facendo  il  tuo  nome

e  chiudendolo  come  un  fiore  dietro  una  porta.


So  dove  sei  ora

lo  vedo

                  dai  vetri  lontani  della  mia  casa,

                                                            dal  mio  cuore

sottile  come  un  muro  d'acqua,

anche  se  l'aprile  caldo  e  quasi  estivo

atterra  all'improvviso le  ginocchia.


Sei  leggero,  più  vivo,

                                               un  vento  libero

di  andare

                  finalmente  insieme  alla  neve



Tolmino Baldassari (Castiglione di Cervia, 1927 - Cannuzzo di Cervia, 2010), è considerato uno dei più grandi poeti italiani del 900, benchè la sua produzione sia quasi tutta in dialetto romagnolo.
È stato bracciante, meccanico, funzionario politico e sindacalista. Ha ricoperto la carica di consigliere comunale di Cervia dal 1951 al 1956 e dal 1964 al 1989.
Autodidatta, ha maturato una vasta cultura soprattutto nel campo della poesia ed ha tenuto lezioni di letteratura presso varie scuole e corsi di poesia presso l’Università per adulti di Ravenna.
Ha esordito nel dialetto romagnolo nel 1975. Ha collaborato con varie riviste. Notizie sulla sua biografia si trovano in Qualcosa di una vita, stampato a Lugo nel 1995 dalle Edizioni del Bradipo.

OPERE DI POESIA: Al progni sérbi, Ravenna 1975 (Prefazione di U. Foschi); E’ pianafôrt, Ravenna 1977 (Prefazione di G. Laghi); La campâna, Forlì 1979 (Prefazione di G. Bellosi); La nèva, Forlì 1982 (Con un saggio di F. Brevini e una prefazione di G. Giardini); Al rivi d’êria, Firenze 1986 (Commento di F. Loi); Ombra d’luna, Udine 1993 (Prefazione di G. Tesio); I vìdar, Faenza 1995 (Prefazione di P. Civitareale); E’ zet dla finëstra, Castel Maggiore 1998 (Prefazione di A. Cappi); L’éva, Villa Verucchio 2002 (Prefazione di G. Lauretano); Canutir, Rimini 2006

lunedì 23 gennaio 2012

HERBERT PAGANI

40Rimbaud diceva che il Poeta doveva farsi veggente, e in effetti gli Dei a volte ci hanno regalato autentici fenomeni in entrambi i campi. Uno di questi era Herbert Pagani, che ebbe, per l'epoca in cui visse (1944-1988), visioni poetiche molto acuminate sul futuro. Ascoltare oggi alcune delle sue canzoni scritte trenta o quarant'anni fa significa ritrovare la voce di una "Cassandra" capace di alternare momenti lirici strazianti ad altri conditi da una ironia pungente, molto più vicini, questi ultimi, alla tradizione d'Oltralpe. Non a caso Pagani era un perfetto "cittadino del Mondo": nato a Tripoli, visse in Italia, Germania e in Francia, dove ebbe molto più successo che da noi, giustamente. Insomma, il suo humus compositivo e poetico era una perfetta miscellanea di culture e poetiche diverse. Pagani purtroppo fa parte di quel gran numero di belle favole che si interrompono in fretta, così come sono cominciate. Oserei dire che è uno di quelli che ci hanno fatto il torto, andandosene, di lasciarci il dubbio su cosa avrebbero scritto e cantato in un momento come l'attuale, dove anche le più cupe predizioni si stanno materializzando in crude realtà. In proposito è illuminante questo suo testo del 1976, "Signori Presidenti", purtroppo più che mai d'attualità.



Per  quella  schiuma  bianca  che  copre  i  nostri  fiumi
per  tutti  i  nostri  pesci  che  vanno  a  pancia  in  sù,
e  per  la  primavera  che  cede  i  suoi  profumi
al  superdetersivo  coi  granellini  blu


E  per  i  panni  sporchi  lavati  troppo  tardi
in  certe  lavatrici  intorno  al  Quirinale
che  puzzano  d'inganni,  di  sangue  e  di  miliardi
mentre  la  lira  scende  ed  il  terrore  sale


Per  tutta  la  violenza  che  scende  nelle  case
dal  cieli  crocefissi  da  antenne  di  TV
quando  non  è  di  turno  tra  Cirio  e  Belpaese
il  Papa  che  consiglia:  votate  per  Gesù


Per  l'urlo  del  pallone  che  vomita  la  radio
coprendo  altre  urla  nei  vostri  mattatoi
prima  che  ci  stendiate  sull'erba  di  uno  stadio
Signori  Presidenti,  grazie  da  tutti  noi!


E  bravi  per  le  belle  centrali  nucleari
che  tutti  già  paghiamo  e  che  nessuno  vuole
e  che  circonderete  di  mille  militari
finchè  non  metterete  un  contatore  al  Sole


Bravi  per  la  giustizia,  che  se  non  tace,  giace
per  la  Rivoluzione  che  ha  i  piedi  gonfi  e  siede
e  per  aver  ridotto  la  libertà  e  la  pace
a  tristi  prostitute  che  fanno  il  marciapiede


Bravi  per  le  colombe  costrette  a  fare  i  falchi
perchè  vendete  armi  al  meglio  compratore
e  per  i  vostri  amori  imposti  ai  rotocalchi
perchè  la  gente  creda  che  voi  avete  un  cuore


Io  vi  ringrazio  ancora  e  me  ne  vado  adesso
la  musica  era  bella  ma  le  parole  no
ma  il  mondo  è  bello  e  ne  avete  fatto  un  cesso
e  finchè  voi  ci  sarete,  così  io  canterò

sabato 21 gennaio 2012

ANDREA ZANZOTTO

Pochi giorni dopo aver compiuto 90 anni se n'è andato velocemente, lo scorso autunno, uno degli ultimissimi grandi poeti italiano ancora viventi. Era natio di Pieve di Soligo, nel profondo Veneto, ma collaborò a lungo con Federico Fellini con ìl quale condivideva la vena "lunare". Dopo essere stato partigiano nelle formazioni di "Giustizia e Libertà", pubblicò la sua prima raccolta "Dietro il Paesaggio" nel 1951. In paese sua zia Teresa, proprietaria di una cartoleria, espose orgogliosa il libro in vetrina., e quando un'insegnante le disse che le poesie del nipote le risultavano "alquanto oscure", l'amore di zia le fece esporre un curioso cartello: "Mio nipote scrive poesie che neanche le maestre riescono a capire!". Zanzotto in effetti riceve critiche alterne, ma ottiene riconoscimenti nei concorsi letterari di allora, quando i giudici si chiamavano Ungaretti, Quasimodo, Montale, Vittorini, eccetera eccetera. In effetti Zanzotto è un poeta di difficilissima collocazione. Poeta dalle visioni ispirate dalla natura e da una forte spiritualità, che non si può certo definire cattolica o cristiana nel termine convenzionale, è stato molto attivo anche nelle battaglie sociali a favore dell'ambiente in un momento storico in cui il suo Veneto veniva irrimediabilmente deturpato dal cemento. Ci lascia un tesoro poetico inestimabile, degno di un Premio Nobel che non arrivò mai e che lui stesso, quando veniva informato della fumata nera regolarmente ogni anno, liquidava con un venetissimo "Figurarse!", e faceva spallucce. Da "La Stampa", ecco l'ultima intervista pochi giorni prima della scomparsa e in coda un pò di poesie. 

 



Qui nell’alta marca trevigiana ci sono piccole zone incontaminate che resistono. Posti dimenticati come Refrontolo che hanno una felicità in sé e conservano un loro incanto. Ma ormai non si può più nemmeno pensarlo, il vecchio Veneto. "In giro c’è una ferocia tale che si esprime in un impulso alla velocità, alla fretta…", dice il poeta Andrea Zanzotto. Oggi compie 90 anni e per l’occasione verrà presentato un libro celebrativo intitolato Nessun consuntivo con un saggio di Carlo Ossola, contenente una lettera del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Da Pieve di Soligo, da quel mondo collinare che ha fatto da fondale ai quadri eterni di Giorgione, Tiziano e Tintoretto, poi devastato dall’industrializzazione selvaggia e dai capannoni del mitico Nord Est, il più cosmopolita dei nostri poeti continua a guardare alle cose del mondo e a tutti noi. Non senza rovelli e nuovi spettri. Zanzotto, a casa sua, è seduto al centro di un piccolo divano, coperto da un berretto rosso e un plaid marrone. Il suo viso è scavato dall’età e dagli acciacchi, ma gli occhi si muovono vispi. La testa mobile e curiosa, da indignato cronico.

È vero che segue da vicino la crisi finanziaria mondiale?
«Questa modernità cannibale mi ossessiona. La stoltezza che circola si palpa come un vento».

«In questo progresso scorsoio, non so se vengo ingoiato o se ingoio…», scrisse qualche tempo fa. Aveva forse previsto tutto?
«La mia cultura è soprattutto letteraria. Per questo mi trovo a inseguire delle realtà con il dubbio di non raggiungere nessuna e benché minima formulazione di un quadro attendibile. C’è qualcosa di azzardato e di friabile in questo nostro presente che sento di non poter controllare».

Se per questo anche gli economisti non hanno previsto nulla. Zanzotto lei è in buona compagnia…
«Questo è vero. In alcuni momenti credo di poter formulare qualcosa di abbastanza stabile. Forse è soltanto il potere della poesia a far sì che riesca a mantenere un contatto con il mondo nonostante il senso di disappartenenza in cui mi trovo costretto a vivere, anzi a sopravvivere. Ma poi mi accorgo che anche questa è un’illusione. Tutto è pressappoco e ci si trova con il fumo nelle mani…».

Lei parla di illusioni. Però le sue battaglie contro la cementificazione selvaggia che si sta mangiando mezza pianura del Piave, sono fatti molto concreti. Qui a Pieve di Soligo si ricordano tutti quella, vinta, a difesa del prato di via delle Mura. Doveva nascere un mega palazzetto, lei è riuscito a fermare le ruspe…
«La mia non è una battaglia antimoderna ma un fatto di identità e civiltà. La marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto ricco di arte e di memorie è arrivata ad alterare la consistenza stessa della terra che ci sta sotto i piedi. I boschi, i cieli, la campagna sono stati la mia ispirazione poetica fin dall’infanzia. Ne ho sempre ricevuto una forza di bellezza e tranquillità. Ecco perché la distruzione del paesaggio è per me un lutto terribile. Bisogna indignarsi e fermare lo scempio che vede ogni area verde rimasta come un’area da edificare».

Un’altra battaglia che combatte da anni è quella contro l’imbroglio della cultura leghista…
«Mi ha fatto molto piacere sentire il Capo dello stato riaffermare l’unità d’Italia e liquidare certi giochi di parole che negli anni avevano creato un imbroglio. La Padania non esiste, il popolo padano neppure. Questa è una storia più che ventennale di equivoci e spettri. La riaffermazione di Napolitano potrà darci il senso di una tregua. E sono convinto che piano piano questo fantasma sparirà».

Eppure nei comuni qui attorno, in questi luoghi del quartiere del Piave sacro alla patria – Moriago e Nervesa della Battaglia, il Montello degli ossari dove correva la linea del fronte della Grande Guerra, l’isola dei morti dove il 26 ottobre 1918 gli arditi sfondarono le linee austriache - la Lega e la sua retorica anti italiana fanno il pieno di voti da anni, com’è possibile?
«Perché esiste una contraddizione molto forte tra la tradizione dell’Italia una e indivisibile e un paese reale diviso dal punto di vista economico. Questo dualismo lasciato marcire per anni ha confuso i piani producendo l’imbroglio di due paesi altri tra loro. Arrivando all’equivoco padanico».

Invece riaffermare nel corso del suo 150esimo anniversario l’unità d’Italia è stato come un urlo liberatorio. Come se Napolitano avesse gridato: “il re è nudo”, sgonfiando d'incanto la retorica secessionista.
«Il viaggio in Italia di Napolitano in occasione del 150˚ anniversario dell’unità ha come riscoperto un patriottismo sopito. In precedenza si era sottostimato quel che era il bisogno di proclamazione unitaria».

In effetti anche l’ex sindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini, al dunque si rimette in testa il cappello da alpino e sventola il tricolore. Il sindaco di Verona Flavio Tosi pure. Continua però l’abuso del dialetto, strumentalizzato a fini politici dai dirigenti leghisti…
«La riaffermazione di Napolitano spero dipani anche questo grande equivoco identitario. Come ci ricorda Gian Luigi Beccaria nel suo splendido libretto Mia lingua italiana , per prima è venuta la lingua. Non è stata una nazione a produrre una letteratura, ma una letteratura a prefigurare il desiderio e il progetto di una nazione italiana. A partire da Dante, Petrarca e Boccaccio. Naturalmente ci sono mancanze e ritardi in un processo forse non del tutto riuscito che ha portato all’Italia unita».

In che senso?
«Storicamente le lingue erano frazionate, c’era una radicalità di dialetti, questo è vero. I mille sbarcati in Sicilia non si capivano, Cavour e la classe colta piemontese parlavano francese. Pittoreschi contrasti che però convergevano verso l’unità del paese, perché la lingua e la nostra tradizione letteraria ci hanno insegnato cosa significasse essere italiani e non soltanto fiorentini, lombardi, veneti, piemontesi o siciliani...». Una lezione che i novant’anni di Andrea Zanzotto, veneto di Pieve di Soligo, la vandea leghista, ricordano a tutti a futura memoria.



Fiume  fedele
che  annunci  e  superi
il  colmo  della  primavera
col  dilagante  ardore  dei  nevai:
donde  tanta  virtù,  tanta  rapina
agnello  che  un  meriggio
all'improvviso  abbuja
in  tumultuoso  mare?  (...)    (1962)



Salti  saltabecchi  friggendo  puro-pura
nel  vuoto  spinto  outrè
ti  fai  più  in  là
intangibile - tutto  sommato -
tutto  sommato
tutto
sei  più  in  là
ti  vedo  nel  fondo  della  mia
serachiusascura  (...)    (1968)



Ma  che  grandi  nevi
che  metri  e  metri  di  splendore
prevedevi,  precedevi/
e  contenta  le  misuravi  nell'alba
latteneve/
Ma  cibo  pacato  ma  come  denudato
ma  come  un  digiuno./
E  la  vigilia  di  Natale
digiuna  persino  lo  scricciolo.    (1968)

venerdì 20 gennaio 2012

BRUNO MISEFARI



Bruno Misefari, calabrese, comincia a scrivere sui banchi di scuola, in tempi molto bui: la guerra di Libia, le rivolte sociali, la fame, la disoccupazione. La sua vena si affina durante l'esilio svizzero, dopo l'evasione dal carcere militare di Napoli. Nel 1917 a Zurigo conobbe la grande poetessa Ada Negri, donna animata da spirito socialista, che lo incoraggiò a continuare ma senza molto entusiasmo. Lei stessa era al giro di boa: stava per aderire all'interventismo di stampo mussoliniano, e la sua poetica volgeva verso la ricostruzione maniacale della propria infanzia triste ed infelice. Misefari prova a trovare uno stile suo proprio, ed in parte riesce in questo suo tentativo, ma purtroppo risente assai dei manierismi e degli idiomatismi tipici dei suoi tempi. Inoltre in quel momento rifulge l'astro di Abele Rizieri Ricciardi, in arte Bruno Novatore, poeta maledetto che si ispira alla frangia più violenta dell'anarchismo, al punto di concludere la sua breve vita in un conflitto a fuoco coi Carabinieri nel 1922, ma che colpisce e rapisce coi suoi versi impetuosi, infuocati e visionari. Bruno non avrà comunque molto tempo per coltivare la bella pianta della poesia: le sue scelte di vita sono estreme, per quegli anni, e lo sottoporranno a prove feroci. Sorvegliato speciale dalla polizia, più volte incercerato, boicottato nel suo lavoro da una multinazionale (!) del vetro, dato che tra i primi aveva intuito le grandi potenzialità della quarzite fusa nel vetro. Un tumore ce lo porta via il 12 giugno del 1936 a Roma. Pia Zanolli gli sopravviverà fino al 1980, custode fedele delle opere e della figura di Bruno. Una prima stampa delle sue opere viene curata nel 1969 da lei a Roma, e ora questa, che ha visto anche l'apporto di opere pittoriche e grafiche notevoli. La copertina, per esempio, è del grande Pablo Echaurren, ma non da meno sono le opere grafiche all'interno del libro, due delle quali sono realizzate da Patrizia Diamante.





Primi  capelli  bianchi  che  spuntate
sul  capo  stanco  della  mamma  mia,
esseri  inconsci,  quanto  mi  recate
crudeli  sbuffi  di malinconia...


Voi  non  sapete,  e  pur  tutto  svelate
il  vero  eterno  all'anima  restìa:
voi  nol  vedete  e  pur  me  l'indicate
quel  freddo  avello  che  da  lungi  spia...


Ed  io  qui  giaccio  mentre  voi  spuntate,
il  cuor  colmo  di  malinconia,
perchè  mi  dite  che  non  c'è  pietate,
e  che  sol  resto  sulla  fredda  via...


O  primi  capelli  bianchi  che  spuntate
sul  capo  stanco  della  mamma  mia.


sabato 14 gennaio 2012

CATHAL O'SEARCAIGH

Altro  sconosciuto  poeta  irlandese  rivelatosi  al  TRATTIFOLKFESTIVAL  faentino  nel  2008.


Nella gabbia del mio scheletro
ieri dimorava un uccello predatore
le piume di un giallo vivo,
e si cibava del mio cuore.

 
Terminato il pasto,
chissà quando,
spiegherà le ali
in alto verso il sole,
nel becco come piuma
la mia anima volerà
verso il firmamento.

martedì 10 gennaio 2012

COLETTE BRYCE

Poetessa  irlandese  rivelatasi  nell'edizione  del  2008  al  TRATTIFOLKFESTIVAL  di  Faenza.


Si addensano come montagne,
questi palazzi qui sul tetto,
scivolano come scogliere
giù verso fiumi di luci di notturno
traffico, annegano per le strade.

Qui, in distanza fra noi,
sono maestre in questo le stelle.

Mi parlano di loro nella tua lettera,
di come le costellazioni sovrastano
in te le montagne ed il fiume.

Qui i cieli hanno velo di nuvole,
per noi, una stella elicottero.

domenica 8 gennaio 2012

LUDOVICO LEPOREO

Nato a Brugnera, presso Pordenone, nel 1580 o 1582, studiò dapprima nel capoluogo, poi a Padova dove iniziò a comporre versi. Indossato l'abito talare raggiunse Roma nel 1602 e divenne scrivano alla Dataria apostolica, sotto papa Clemente VII.
Ebbe un moderato successo nei salotti letterari e fu amico, fra gli altri, di Pompeo Colonna e di Juan Caramuel y Lobkowitz, autore della Metametrica. Divenne membro dell'accademia anticlassica dei Fantastici e salvo qualche viaggio in Friuli, passò una vita tranquilla e stanziale, anche se amareggiata dai frequenti intrighi di corte.
La sua prima opera edita fu un panegirico per la canonizzazione di Carlo Borromeo nel 1612 (edito da Marco Claseri). Nei venti anni successivi pubblicò poco, fra cui una traduzione dell'Arte Poetica di Orazio Flacco nel 1630.
Nel 1634 pubblicò il Decadario trimetro, raccolta di poesie di dieci versi contenenti ciascuno tre rime uguali, due interne e una finale, che si susseguono in ordine alfabetico: a e i o u. Il libro suscitò l'attenzione dei letterati del tempo (si parlò di "nuova et inaudita inventione di poesia volgare") e fu iniziatore del genere del "leporeambo", secondo una linea barocca esacerbata, caratterizzato dalla concentrazione parossistica di artifici poetici e fonetici all'interno della singola composizione. Si tratta di sonetti in forma di endecasillabo piano, canzoni e canzonette dai temi più diversi, spesso con rima al mezzo.
Pubblicò numerose raccolte poetiche fino a due anni prima della morte, che lo colse a Roma nel 1655. Fra le raccolte più significative i Leporeambi alfabetici musicali (Bracciano, Andrea Fei, 1639), i Leporeambi nominali alle donne et accademie italiane (1641) e la raccolta Centuria di leporeambi che conobbe almeno tre edizioni (Roma, Eredi di Grignani, 1651; Bologna, Carlo Zenero, 1652 e Udine, Niccolò Schiratti, 1660). L'ultima opera pubblicata fu il Duodecadario, bisdecadario, trisdecadario (Roma, Andrea Fei, 1653). Ecco a voi il Leporeambo dedicato a donna Urbana, del 1641.

Edizioni moderne



Stelio Maria Martini e Arrigo Lora-Totino (a cura di), edizione di Amante imperversato (Napoli, Terra del fuoco, 1989), che raccoglie 56 poesie di Leporeo
Walter Boggione (a cura di), Centuria (Leporeambi, Torino, Edizioni Res, 1993, con un'introduzione di Giorgio Barberi Squarotti)
Mario Turello, Le opere di Lodovico Leporeo, Pordenone 2005 (con presentazione di Rienzo Pellegrini)




Talpa sono, Argo sembro, a morte vado
dubbio sto, scerno il falso, al ver non credo
vivo in duolo, amo il peggio, il meglio vedo
servo Urbana, empia dama, non le aggrado

Erro ognor, nulla imparo, a fole abbado
poco spero, assai perdo, al gioco riedo
lascio il porto, Eolo sfido, il vento fiedo
rosi ho i rami, ergo il volo, a terra cado

Nego il sol, l'acqua al mar, l'arene al lido
muto sto, prego indarno, adorar godo
alpe dura, aspe sorda, idolo infido

Seguo amor senza fè, mi struggo e rodo
gelo in foco, ardo in ghiaccio, in pianto rido
spregio il fin lascio il mezzo aborro il modo

venerdì 6 gennaio 2012

GRYZKO MASCIONI

Gryzko Mascioni, originario del Canton Ticino, deceduto nel 2002, è stato uno dei più grandi drammaturghi e poeti svizzeri del secolo testè concluso. Memorabile una sua opera teatrale avente come soggetto la monaca tedesca Ildegarda di Bingen, vissuta nel XII secolo. Questa sua stupenda poesia, intitolata “Il Soffio della Notte”, è tratta dal suo ultimo lavoro “Angstbar“  (Il bar dell’angoscia), uscito postumo. Il tono della poesia risente fatalmente del suo stato di malattia, ed è dedicato alla sua ultima compagna di vita.


Tu che mi vieni incontro, alato
d’innocenza, umile amore,
o tortora dorata, covi il nido
negli sterpi di brughiera,
nella luce di malva della sera.
Ma senti come ghiaccia
il soffio della notte,
il brivido dell’ultimo maestrale,
che scarruffa di riccioli di spuma
l’alto mare: ed un palpito
di piume già mi accòra,
nel precipite tuffo, or
ch’è l’ora, di pensare
alla partenza. Ti lascio
un lume che respira in cielo,
pallore di un’esangue arcobaleno,
monile sul tremore del tuo seno,
che infantile, si svena di paura.
Tanto per dir che non fu vana
la piccola avventura di noi due,
sorridersi nel vento, ed insieme
camminar, la mano nella mano

mercoledì 4 gennaio 2012

GIOACCHINO BELLI

LA  VITA  DELL' OMO

Roma,  li 18 gennaio 1833

Nove mesi alla puzza e poi in fasciola,
tra sbaciucchi, lattime e lagrimoni:
poi p’er laccio, ner crino e in festicciola,
col torcolo e l’imbraghe pe’ carzoni.
Poi comincia er tormento de la scola,
l’abbeccè, le frustate e li geloni,
la rosalìa, la cacca alla sediola,
e un pò de scarlattina e vormijoni.
Poi viè l’arte, er diggiuno, la fatica,
la piggione, le carceri, er governo,
lo spedale, li debbiti, la fica,
il sol d’estate e la neve d’inverno,
e per urtimo, Iddio ce benedica,
viè la morte, e finisce
finarmente co st’inferno…

martedì 3 gennaio 2012

NICO ORENGO

ROSE  DEL  '51


Furono  rose,  tante,  mai  viste
nel  loro  spuntar  da  terra,
coltivate  sotto  vetri  di  serra,
come  fossero  insalate  preziose
e  combattevano  nel  crescere
e  nel  prendere  colore.
Avevano  spina
avevano  dolore.
Poi  vidi  una  rosa,
una  rosa  sola,
s’aggruupava
ad  un  muro  di  Ostuni
offrendogli  colore,
mentre  una  vecchia  nera,
filava  a  poco  a  poco
i  petali  che  perdeva.



NICO  ORENGO  nacque  a  Torino  nel  1944  ed  è  scomparso  recentemente.  Il  testo  qui  presente  è  tratto  da  “Elogio  della  rosa”,  Einaudi,  2002.

lunedì 2 gennaio 2012

PIERO SANTI

nell'ombra  albicocco  della  sera
il  brusìo  scoppiò  nel  rombo  dell'aereo
nel  cortile  udimmo
la  voce  di  Giuseppe  dalla  radio
"e l'an passè ch'un  vens  un  arzaruol..."
ravenna  scirocco  aggrediva  la  notte
quando  nella  mente  logora
si  annidò  il  suono  stridore
di  una  memoria  remota
nè  Byron  nè  lo  spettro  di  Teoderico,
piuttosto  il  sapore  aspro
del  cocomero  sulla  via  del  mare,
con  Luca  ironico,
Angelina  dulcisamara,
Riccardo  docile
e  tu,  Giuseppe,
ci  guiderai  ancora
per  i  piani  luna  di  Sant'Alberto
alla  curva  del  fiume...
ma  ora  il  nostro  respiro
è  roco,  nell'afa,
come  quello  del  gatto  Raparino


PIERO  SANTI  (1911-1990),  è  stato  uno  scrittore e poeta  fiorentino, molto legato, tra gli altri,  a  Mario  Luzi.  Il  suo  romanzo  più  famoso  è  IL  SAPORE  DELLA  MENTA,  del  1963.  Questo  testo  è  dedicato a  Giuseppe  Maestri,  gallerista  e  incisore  romagnolo,  scomparso  tre  anni  fa,  del  quale  fu  grande  amico.