venerdì 21 dicembre 2012

AZELIO ORTALI


LA PIOGGIA VERDE


Un marmo ch'è una forma,
una forma ch'è un guerriero,
alto nel centro di piazza,
bianco, rigato dal grigio
degli inverni; su tutto
quel marmo un cappello afflosciato,
un calare di sopra,
una piccola conca;
qui l'aria depose la polvere,
l'acqua l'impastò in terra,
e il vento che spazzola lìerba
portò i semi: crebbero
penne di steli verdi,
un ciuffo.
Oggi ho messo gli occhiali
del saggio e ho visto l'aria
zeppa di eventi vitali,
ho visto la città
sotto un fitto cadere,
una pioggia che non bagna,
non scroscia, ma semina,
una verde pioggia



da  ASSEDIO DI UNA CITTA'  -  Longo Editore, Ravenna, 1987

con prefazione di Danilo Mainardi

mercoledì 28 novembre 2012

PIETRO CIMATTI


Pietro Cimatti (Forlì1929 – 1991), nel 1946 si trasferisce con la madre a Roma. Si sposa nel 1957 con la pittrice Laura Giometti – con cui ha tre figli, Felice, Duccio e Ivano (detto Vanja) –, dalla quale si separa nel 1967. In punto di morte sposal'attrice cinematografica  Rosita Toros, sua compagna da molti anni. Dal 1959 al 1964 è redattore capo de la Fiera Letteraria .È stato collaboratore di diversi quotidiani e periodici, fra cui II popolo, Leggere, Prospettive meridionali, Il caffè, Vita, Civiltà delle macchine, Idea, Operare, Sorrisi e Canzoni, Il messaggero, e collaboratore ai programmi culturali della RAI. Dalla sua vita è stato tratto qualche anno fa lo spettacolo teatrale "Fuoco di Sagittario", rappresentato con successo al Teatro Diego Fabbri di Forlì. Questi testi sono tratti da "Stanze sulla Polveriera", il suo libro più famoso, edito nel 1978 da Rusconi.

Il grande ontano (il pioppo) schiuma il vento.
La piazza è una cascata di acqua assente.
Vampe d'Africa, ardente. Un gallo canta
da remoti pollai l'alba impaziente.
Nudo al richiamo esco sul crepitante
bujo nè sveglio nè dormiente.
Il nero pioppo (l'ontano) è la mia testa
di demente, la mia festa al presente.
Urlo in silenzio il terremoto
insonne del mio assenso.

Sempre è la prima notte (finchè stinge
la prima aurora sta il dormente nulla)
ma una serie di secoli la spinge,
umida imene e lacero vessillo.
Io non ricordo, è una stolta memoria
che s'inganna a inghiottire notti e giorni,
ombre di un affamato desiderio:
che tutto passi ma tutto ritorni.
Sempre è la prima notte, l'uomo muore
prima dell'alba, è subito l'aurora
che lo sottrae, nessuno ha visto ancora
due notti, siamo dormienti e gridiamo
nel sonno, notte è tutto ciò che abbiamo:
ma intende solo chi ha l'akba nel cuore.

L'alba cantata dai galli è assordante.
La testa del pioppo (populus nigra)
brulica di pidocchi cinguettanti.
Lampo zolfino è l'alba, e non c'è scampo.




sabato 10 novembre 2012

GIANNI MILANO


Torinese di origine, Gianni Milano è da sempre un attivista per i diritti civili e un personaggio notissimo all'interno del mondo libertario.



In memoria di Bruno Schultz 
 
 
Nell’universale pogrom di mosche non c’è spazio per colonne di piombo:
a fatica Sansone sorregge la sua testa l’idea fissa nel tempio del Signore:
come falci di onde latranti sono trascorsi i danzatori del principe Igor:
ora è pioggia fatale di neri bottoni di Pierrot che sotterrano le fate.
 
                                            Hanno vulve le fate?
 
Strascicando la sciarpa il cappotto dalle unghie corrotte il pendolo dormiente
barattiere di aleph di verderamati mozziconi d’antiquario e suggelli miracolosi
sulla linea di poroso catrame che geme falsi passi di lampione
alla ricerca di quel posto di quel posto-là.
 
                                           Hanno vulve le fate?
 
Attacchino d’arlecchineschi sberleffi di signori alla moda politici della parola
culi nudi dalla bocca aperta che colano colla lacrime appiccicose di bugie
quasi braci di seni che la notte promana da quarti di luce di manzo sventrato
dove dove seppelliscono i becchini le belle signore dell’incanto in ragnatele d’amianto?
 
                                          Hanno vulve le fate?
 
Uno spazio di certo c’è dove le cose, tutte, sparpagliate dal Golem isterico
giacciono a pancia all’aria rosicate sconnesse e ammutolite ma gloriose
perfidamente solidali con trame di polpastrelli di piano ed orme di passi di Luna,
la colpa non li incide non li decapita affatto: agli uomini ricostruire un senso.
 
                                         Hanno vulve le fate?
 
L’uccello di paglia all’incrocio tra il Tempo e l’Assenza vide passare in gioventù
per queste stesse arterie zoppicando seminando la forfora alle soste
illuminando gli angoli con spicchi d’occhi inverditi dall’angoscia
il raccattatore di fate – e c’era un botteghino in cui le fate
rendevano davvero, papillons dorés.
 
                                        Hanno vulve le fate?
 
Ha le dita macchiate d’inchiostro l’uomo di pietra che controlla il perenne
lagrimare della pompa dell’acqua che rinfresca i rayons i binari lucenti.
Odisseo delle rondini Odisseo dei colombi l’occhio a manca distilla
umore di mortale ferinità del sasso il tumore della pupilla
ferita dalla visione.
 
                                        Hanno vulve le fate?
 
E così senza meta strascicando il mio carro familiare come un cane di pezza
da una vita io mi filtro tra la pioggia di mosche alla ricerca delle fate.
Le affissioni grinteggiano col baffo rigido e la cornea ingiallita ma ho
un impegno d’amore un comizio in Eldorado una partita a carte con le ore
notturne un’arpa da suonare in onore dei morti di sogno un cavallo
in Guernica due o tre entrées per far ridere Alice un’adonica posa
per eccitare Teresa e così senza meta strascicando il mio carro
familiare, col moccio al naso…
 
                                       Hanno vulve le fate?
 
In confidenza – non farò caso ai polpastrelli nicotinici ai raptus
                          che si ingoiano le lampadine butterate:
in confidenza – da sottoscala a sottoscala, quanto può valere al mercato
                         dell’usato una profezia antica?
 
                                       Hanno vulve le fate.
 
                                                      
 
 
 
                                          GIANNI  MILANO 1983
 



giovedì 25 ottobre 2012

PAUL POLANSKI


Paul Polansky antropologo, poeta, cooperatore internazionale americano, è stato anche pugile. E sono pugni quelli che assesta per il tramite delle poesie che scrive, dando voce alla voce di chi non può parlare a tutti: i Rom dell’Albania, o della Serbia . Paul, infatti, dopo un soggiorno in Spagna, vive da alcuni anni a Nis, in Serbia, dove conduce la sua ricerca e dove dirige la  Mission for Kosovo Roma Refugee Foundation. La sua opera poetica è solo in parte tradotta in italiano, mentre è del tutto inedito il suo romanzo The storm.

 
.
THE WELL (in the voice of a young Romani man)
 
They caught me in the marketplace
where my people used to sell clothes,
where Albanians now sell contraband.
 
Four men threw me into the back seat
of a blue Lada, yelling, “We told you,
no more Gypsies in Prishtina.”
 
As I was pushed down on the floor,
I felt the gun barrel in my left ear. It was so cold
I jerked just as someone pulled the trigger.
 
Blood splattered the side of my face
from the wound in my shoulder.
I collapsed, pretending to be dead.
 
I prayed to my dear, deceased mother, to all
mulos1, that these men wouldn’t see from where
the blood was oozing. When we arrived, they
dragged me out by my feet. My head crashed on
the ground, bouncing over several stones.
 
They threw me head-first into a well.
I never reached the water.
There were too many bodies.
 
I lay crumpled up, almost unconscious
until the smell and sting of wet lime
brought me back to my senses.
 
I held my breath until I heard
the car leave, then choked
on the stench around me.
 
With only one hand, I pulled
myself over stiff legs that became
my ladder to climb out.
 
My face, my hands, my whole body
burned from the lime. I used grass
to wipe off what I could,
then stumbled down a dirt road
toward a long line
of slow-moving lights.
 
Twenty minutes later I was on the highway
watching olive-colored trucks and jeeps,
driving past as if I were a telephone pole.
 
I finally collapsed in front of two headlights.
I couldn’t tell if the last sound I heard
was a screech or a scream.
 
The next day in a military hospital
NATO interviewed me for a few minutes.
The Albanian interpreter made the soldiers smile.
 
By mid-day I was walking
through a woods following a wagon trail
nobody uses anymore,
except Gypsies
 
escaping a country
where they have lived
for almost
seven hundred years.
 
 
 
IL POZZO
 
Mi presero al mercato
dove la mia gente una volta vendeva vestiti,
e dove ora gli Albanesi praticano il contrabbando.
Quattro uomini mi gettarono sul sedile posteriore
di una Lada blu, urlando “Lo abbiamo detto,
niente zingari a Pristina.”
 
Mentre mi spingevano giù sul fondo,
sentivo la canna della pistola sull’orecchio sinistro. Era così fredda
che sussultai proprio mentre qualcuno premette il grilletto.
Il sangue mi schizzò su un lato della faccia
dalla ferita sulla spalla.
 
Caddi, fingendomi morto.
Pregai la mia amata madre morta, tutti i
mulos1, affinché questi uomini non si accorgessero da dove
fuoriusciva il sangue. Quando arrivammo,
mi tirarono fuori per i piedi. La testa si schiantò
sul terreno, rimbalzando sulle pietre.
Mi gettarono a testa in giù in un pozzo.
Non raggiunsi mai l’acqua.
 
C’erano troppi corpi.
Giacevo rannicchiato, quasi incosciente
finché la puzza e il bruciore della calce viva
non mi fecero rinvenire.
 
Trattenni il fiato finché non sentii
ripartire la macchina, ma poi soffocai
per il fetore che mi circondava.
 
Con una sola mano, mi trascinai
aggrappandomi a gambe rigide
che mi fecero da scala per arrampicarmi.
La faccia, le mani, tutto il mio corpo
bruciava per la calce. Usai dell’erba
per pulire quello che potevo,
poi barcollai giù per una strada sporca
verso una lunga fila
di luci che si muovevano lentamente.
Venti minuti più tardi ero sull’autostrada
guardando i camion e le jeep verde oliva,
che mi passavano accanto come se fossi un palo del telefono.
Alla fine crollai davanti a due fari.
Non so dire se l’ultimo rumore che sentii
fu uno stridio o un grido.
Il giorno dopo in un ospedale militare
qualcuno della NATO mi interrogò per alcuni minuti.
L’interprete albanese fece sorridere i soldati.
A mezzogiorno stavo camminando
attraverso un bosco seguendo un sentiero per carri
che nessuno usa più,
tranne gli zingari
che fuggono da un paese
in cui hanno vissuto
per quasi
settecento anni.
 
Traduzione di Valentina Confido -
 

martedì 9 ottobre 2012

PAOLO RUFFILLI



La parola, per me,
veniva da distante.
Un a priori, quasi,
l'avvertivo. Un eccitante.
In un processo in
qualche modo inverso.
Nel darle per riscontro
una realtà che invece,
più toccata e presa, più
sfuggiva inconsistente
ai cinque sensi.
Con l'effetto di essere
lanciata contro un corpo
pronunciato e, nel
suo dirlo, di colpo
riafferrato.



da "Piccola Colazione" (1988), Edizioni Garzanti, Milano

martedì 25 settembre 2012

HORST FANTAZZINI

In occasione dell'uscita de "Lo Statuto dei Gabbiani" (edizioni Milieu, Milano), che racchiude il racconto "Ormai è fatta!", ad opera di Horst Fantazzini (Altenkassel, Germania, 1939 - Bologna, 2001), più varie poesie scritte durante i lunghi anni che l'autore passò in varie carceri di Italia e Francia per una serie di rapine compiute presso vari istituti bancari, proponiamo questo bellissimo testo scritto nel 1968, in carcere a Marsiglia. La prima presentazione del volume è in programma questo mercoledì 26 alle ore 19 presso la nota libreria Modoinfoshop in via Mascarella, a Bologna (ex Ripicchio), e vedrà protagonista Patrizia Diamante, pittrice e poetessa già ospitata su questo blog, che ha inoltre aggiunto varie pagine di sue note e ricordi personali. La poesia "L'ATTESA" (dedicata a Camus), compare persino in una vecchia rivista di poesia e scritti di matrice operaja, "Abiti-Lavoro", che uscì dal 1981 al 1984, e il cui recapito principale, beffardamente, era ad Arcore.



Mi guardo intorno
e vedo il vuoto,
chiamo
e non mi risponde che l'eco.
Questa solitudine
lacererebbe di meno
se non vi trovassi
incrostati in ogni dove
risatine di scherno,
tentennamenti di capo,
gesti e sguardi complici
condannanti il diverso,
l'escluso,
l'intruso.
No,
non griderò,
non darò loro alibi
per giustificare
l'assurda condotta.
Attenderò un'altro intruso,
altri diversi,
tutti gli esclusi.
Quel giorno non renderemo
loro lo scherno e il disprezzo,
ma ci limiteremo a lasciarli
estinguere nel loro misero
deserto intellettuale.
In solitudine,
silenziosamente.
Senza eredi.

sabato 15 settembre 2012

ROBERTO ROVERSI




All'età di 89 anni si è spento a Bologna il grande poeta e intellettuale Roberto Roversi, una pietra miliare per la poesia e la canzone d'autore italiana. Scrisse infatti testi molto noti per Lucio Dalla (Nuvolari, Anidride solforosa, ecc) e per gli Stadio (Chiedi chi erano i Beatles). Ha combattuto nella Resistenza, e nel dopoguerra è stato Direttore di "Lotta Continua" e fondatore di note riviste dell'epoca, come "Officina", nel 1955, assieme a Francesco Leonetti e Pier Paolo Pasolini. Dal 1948 al 2006 mise in piedi la mitica libreria antiquaria "Palmaverde" a Bologna, punto di riferimento per poeti e intellettuali di tutta Italia. Del 1961 è la fondazione della rivista "Rendiconti", di cui, assieme ad "Officina" fu anche editore. Verso la metà degli anni 60 operò una scelta rivoluzionaria per l'epoca, smettendo di pubblicare per grandi editori, inaugurando la stagione delle raccolte poetiche su ciclostile o fotocopiate e autogestite, e distribuite liberamente sopratutto col passaparola. In questo senso fu il nume tutelare del "Mercatino della Poesia" di Ravenna, che dal 1979 al 1982 si svolse nelle piazze della città bizantina, che vide esplodere la forma ciclostilata e autodistribuita del testo poetico, anche da parte di grossi autori, che in parte la interpretarono come "moda", ma anche però come mezzo per liberarsi dai dettami molto rigidi delle case editrici. Fu quindi grande amico di molti poeti romagnoli e ravennati, in particolare di Eugenio Vitali, il poeta ravennate che inventò la "Poesia da affissione", esperienza che durò dal 1971 al 1975 e che fece molto scalpore e fu persino imitata a Londra nel 1985. Ci lascia quindi l'ultimo grande vecchio della poesia italiana, finissimo intellettuale e voce controcorrente, scomoda ma rispettata.

lunedì 27 agosto 2012

PIER PAOLO PASOLINI

AL  PRINCIPE




Se torna il sole, se discende la sera,
se la notte ha un sapore di notti future,
se un pomeriggio di pioggia sembra tornare
da tempi troppo amari e mai avuti del tutto,
io non sono piu' felice, nè di goderne, nè di soffrirne,
non sono piu' davanti a me, tutta la vita...
Per essere poeti, bisogna avere molto tempo,
ore ed ore di solitudine sono il mio modo
perchè si formi qualcosa, che è forza, abbandono,
vizio, libertà, per dare stile al caos.
Io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte
che viene avanti, al tramonto della gioventu'.
Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano,
che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace.

mercoledì 1 agosto 2012

GIOVANNI PASCOLI


Numerose le manifestazioni in tutta Italia e manifestamente in Romagna, per celebrare il centenario della morte di Giovanni Pascoli, che nacque a San Mauro, piccolo centro tra Rimini e Bellaria. La vita e l'insegnamento lo portarono però in giro un pò per tutta la Penisola. Soggiornò a lungo a Castelvecchio, in provincia di Lucca, e fu grande amico di Giosuè Carducci, fondatore della Cattedra di Italianistica all'Università di Bologna, che lui stesso affidò in seguito a Pascoli. Sterminata e conosciuta a livello mondiale la sua produzione, di cui diamo qui un breve saggio, "La Quercia Caduta".



Dov'era l'ombra or sè la quercia spande
morta, nè più coi turbini tenzona.
La gente dice: "Or vedo, era pur grande".

Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: "Or vedo, era pur buona".

Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
ognuno col suo grave fascio, va.
Nell'aria, un pianto... d'una capinera

che cerca il nido che non ritroverà.




sabato 14 luglio 2012

ERNESTO GUEVARA DELLA SERNA


La poesia è in qualche modo una piccola rivoluzione, e quindi anche i rivoluzionari a volte sono ottimi poeti. Ernesto "Che" Guevara ne è un esempio.



La mia unica al mondo;
ho estratto di nascosto dalla dispensa di Hikmet questo unico verso innamorato, per
lasciarti l’esatta dimensione del mio affetto.
Ciò nonostante,
nel labirinto più profondo della lumaca taciturna
… si stringono e combattono gli estremi del mio spirito:
tu e TUTTI.
Quei TUTTI che mi chiedono la consegna totale,
che la mia sola ombra annerisca il cammino!
Ma senza truccare codici d’amore sublimato
ti porto di nascosto nel mio sacco da viaggio.
(Nella mia borsa di viaggiatore insaziabile io ti porto
come il pane nostro di ogni giorno).
Esco ad innalzare primavere di sangue e di calcina
e ti lascio, nell’incavo della mia assenza,
questo bacio senza dimora conosciuta.
Ma non mi è stata predetta la piazza riservata
alla marcia trionfale della vittoria
e il sentiero che porta al mio cammino è cosparso di ombre già funeste.
Se sono destinato all’oscuro fosso delle fondamenta,
mettilo da parte nell’archivio confuso del ricordo;
usalo nelle notti di lacrime e di sogni…
Addio, mia unica,
non tremare davanti alla fame dei lupi
né al freddo da steppa dell’assenza;
cammini accanto a me, dalla parte del cuore,
insieme andremo avanti fino a quando
sfumerà la rotta …
 
(Ernesto Guevara della Serna. il Chè. – Poesia inedita di addio ad Aleida March)